Nati due volte pdf




















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Clicca per vedere tutti gli ebook del Clicca per vedere tutti gli ebook dello stesso genere Romanzi. Clicca per vedere tutti gli ebook di giuseppe-pontiggia. Non aggiungo altro. Il silenzio lavora a mio favore. Non so se la cerca in aiuto suo o mio. Forse non lo sa neanche lei. Chiude alle sue spalle la porticina.

Intanto che aspetto torno a guardare il mappamondo. Immagino le voci dei ragazzi salire dal basso. Ha un sorriso che non promette nulla di buono: «Lei vorrebbe un trattamento particolare per suo figlio. Sorrido facendo cenno di no con la testa. Sto usando il gergo che aborro, quello dei miei interlocutori. Ha appoggiato un gomito sulla scrivania, il viso sul palmo e si accinge ad ascoltarmi come se dovessi rivelarle un segreto.

Ma anche lui ha dato molto alla classe. Magari per compensazione, ma che importanza ha? Molte donne lo fanno, convinte che sia un effetto speciale. Per un sorteggio? Ha soppresso il titolo di professore e questo sembra invogliarla a un tono confidenziale, quasi intimo. Lei vuole proteggere troppo il suo ragazzo! E invece lui deve affrontare la vita! Trovi sempre qualcuno pronto a indicarti la strada che tu percorri tutti i giorni. Ma lo fa, dice, nel tuo interesse e devi perfino ringraziarlo.

Sento che le due donne si guardano e mi sembra un auspicio positivo. La signora Matteucci ha una resipiscenza: «Frigerio, lei non vuole approfittare, vero, del suo ruolo di insegnante, per chiederci una infrazione della norma?

Basta leggere una D invece di una C. Basta un tratto di penna. Anche lei ha rinunciato al titolo, questa diminuzione mi accresce. Si volta verso la signora Matteucci: «Lei che cosa ne dice? Ho partecipato a una recita che mi lascia prostrato, felice, malinconico, una piccola vittoria in una guerra destinata a non avere fine. Prendo congedo dalla preside.

Sulla porta non resisto alla tentazione di toccare il mappamondo. Lo faccio girare piano in senso antiorario. Morte di una attrice. Non so se le piacerebbe questo incipit del suo necrologio. Pur avendo dedicato le energie residue a questa meta aiutava ogni giorno Franca nella ginnastica del bambino, in una competizione instancabile con mia suocera , aveva un senso esclusivo del proprio destino.

Mia madre aveva aspettato vanamente nove anni, lei che mi raccontava come io avessi cominciato a camminare a nove mesi. Ambiziosa, amara, mai paga di quanto la vita le dava e sempre ferita da quanto le negava, investiva di significati iperbolici anche le umiliazioni che subiva. Paolo che compiva i primi passi vacillanti era diventato un campione da guardare con ammirazione.

E lei faceva partecipi le sue amiche di questi trionfi. Le lacrime che ogni tanto le sfuggivano erano il solo segnale del suo tormento; ma bastavano a compensare il disagio per quel profluvio di successi. Gli altri ce ne sono grati. Dilettante da giovane in una filodrammatica di provincia, non aveva mai abdicato idealmente al suo destino di attrice.

Cesare, che preferiva essere primo in un villaggio che secondo a Roma, era riuscito alla fine a essere primo anche a Roma. Lei, temendo di non poterlo emulare nella capitale, aveva rinunciato anche al villaggio. Era questa la differenza tra lei e Cesare: che Cesare si sarebbe accontentato di un villaggio. Amava le cerimonie, le feste, i ricevimenti, le serate mondane. Allora scoprono abissi virtuali nel passato dei loro genitori, drammi ipotetici e commedie recitate con dissimulata pazienza.

Quando mi sono posto la domanda, non ho trovato risposta. Mi illudo invece di divinare, retrospettivamente, il comportamento di mia madre. E, a questa, lei probabilmente era stata fedele, sognando nel suo patriottismo visionario di essere stata la compagna di un eroe.

Quando era caduto per errore in una simulazione di imboscata, lei si era chiusa in un lutto teatrale protratto per anni. E aveva educato i figli a un culto della memoria che mi sembra, a distanza di anni, una apoteosi laica in chiave domestica. Non penso potrei mai assurgere a tale divinizzazione con i miei due figli. Franca non vi contribuirebbe mai, loro ne sarebbero stupefatti e io con loro. Ogni tanto, stremata dalla ginnastica riabilitativa e dalla convivenza con noi, si prendeva periodi di congedo in cui tornava a casa sua.

La condivideva con una signora altrettanto vecchia, vedova di un capostazione in pensione. Niente le accomunava tranne il giardino in comune. Mio suocero le portava spesso Paolo in automobile, qualche volta con me. Lei ci accoglieva sotto il porticato del giardino. Trovava che il nipote facesse progressi grandissimi, ma il suo entusiasmo finiva per deludermi. Avesse detto progressi le avrei creduto.

Per una credente fatalmente fanatica come lei, ovvero intollerante dei propri dubbi, era una ammissione imprevista. Per il sole». Negli ultimi mesi aveva acquistato una visione lenticolare del tempo. Viveva non giorno per giorno, ma ora per ora. A me appariva sempre visionaria, come da bambino. Ma mentre allora non condividevo le sue illusioni, ora ascoltavo con interesse i suoi racconti sulla crescita dei legumi.

Era diventata visionaria nel piccolo. E le lacrime che ricacciava sorridendo erano di gioia malinconica. Forse non le sarebbe spiaciuto sentire le parole che un vecchio prete, vibrante nella voce gagliarda e arrochita, aveva pronunciato davanti alla sua bara, la mattina delle esequie. Aveva parlato di vita, non di morte, di risurrezione del corpo, non di dissolvimento, di luce sfolgorante, non di buio. Un consulto tardivo.

Tra i molti medici che si sono occupati di Paolo ne ricordo uno di cui ho dimenticato quasi tutto: il viso, il nome, le circostanze del consulto. Ci eravamo rivolti a lui, se non sbaglio, tredici anni dopo la nascita.

Speravamo un conforto per le cure che avevamo seguito fino allora e magari un suggerimento decisivo, che consentisse una accelerazione nei progressi innegabili. E aspettavamo calmi il suo consulto. Io non ho alcuna fiducia nel metodo Doman.

Ruotare di centottanta gradi il capo del bambino quattrocento volte in un giorno e bombardare il suo cervello di stimoli produce qualche effetto. Ma lo produrrebbe anche una carezza insistita sulle dita di un piede o un giro nel parco su una carrozzella sospinta dalla madre. Era come se avessimo appreso una beffa subita da altri, non da noi.

Quel discorso non ci aveva sconvolto, come sperava il suo autore oggi che posso giudicarlo dopo anni. Mai direi a un mio ex alunno che i suoi studi sono stati perfettamente inutili e che avrebbe appreso meglio per altre vie quello che aveva imparato faticosamente a scuola.

Aveva certamente esagerato per gusto del paradosso e accanimento cordiale. La sua delicata ferocia ci rassicurava. A me era tornato alla memoria un racconto di Maupassant, credo si intitolasse La collana: la protagonista, dopo avere sacrificato anni della sua vita per pagare il debito di una collana di diamanti avuta in prestito e subito perduta, scopre atterrita, alla fine del racconto, che la collana era falsa.

Quegli anni erano stati una scalata per il bambino e per noi, ci avevano aiutati a sperare. Noi gli avevamo probabilmente trasmesso — attraverso il supplizio quotidiano di una ginnastica ossessiva — anche una irresponsabile fiducia nel ricupero.

E questo, alla luce dei risultati, doveva avere contato. Era lui che era sbagliato. Tempo al tempo. Lei mi indica il letto: «Glielo rifaccio tutti i giorni. Ti preoccupi solo della intelligenza! Appunto per questo dovresti intervenire. Potresti insegnare qualcosa anche a tuo figlio! Ha una smorfia apprensiva, una diffidenza malcelata. Sto ripetendo lo stesso errore.

Lui ha un lieve sobbalzo, poi i piedi ritornano appaiati. Avevo individuato alcune tessere del puzzle, ma non sapevo come combinarle. Una cosa assurda, quasi vera. Sei anche galante. Lo sapeva che gli adulti chiedono per rispondere loro. Devi cercare di sorprenderle. Ne parlava come di oggetti meccanici dalle reazioni programmate e mostrava un certo disprezzo, non inferiore a quello che riservava agli uomini. Sta guadagnando terreno. Non si esce mai dalla infanzia. Ci siamo rimasti troppo a lungo.

Basta che non lo siano troppo e non lo siano sempre. Non che manchino, anche con loro, le cattive sorprese. Forse non ci siamo capiti, ma ci siamo intesi. Per qualche anno, tra i dieci e i quindici, mi ha detto, in occasioni diverse, questa frase. Spesso infatti scambiano la sua voce lenta, strascicata, talora inarticolata, per uno scherzo e riattaccano.

In altri casi gli chiedono di ripetere la frase, con lo stesso esito. Lui non si arrende, il viso immediatamente sudato, gli occhi lucidi, una determinazione che mi inorgoglisce e mi esaspera. Era come se riaprissi una ferita che lui voleva richiudere. E sceglievamo tutti e due il modo sbagliato. Arrossiva di una malinconia retrospettiva che gli intossicava il piacere del momento.

Aveva nelle pupille un lampo di presentimento inquieto, come la conferma di una paura inestinguibile. Paolo non voleva che gli confermassi la sfiducia con cui troppi genitori accompagnano la crescita di un figlio. Che la condanna inappellabile pronunciata sul suo futuro venisse modificata da una sentenza retroattiva. Io speravo che tu ce la facessi, ma non volevo illudermi. Sapevo che se mi fossi illuso sarei diventato insofferente a ogni tuo sbaglio. Spesso gli altri capiscono solo che siamo turbati e che vogliamo aiutarli.

Una ragazza al telefono. Lo vedo paonazzo al telefono, che balbetta. Ha il viso sudato, gli occhi luccicanti. Poi dice smarrito: «Non mi ricordo. Poi sospira, prende fiato. Le chiede con la sua lentezza, ma con un occhio vagamente ammiccante: «Dove vuoi che ci vediamo?

Avrei voglia di abbracciarlo. Le chiede: «Quando? Mi siedo vicino a lui: «Ha riattaccato? Temo stia per piangere. Non devi prenderlo sul serio! Ma potrebbe essere vero.

La prossima volta diglielo! Impari che ci sono ragazze stupide. Non darle spazio! Aggiunge: «Tu forse non lo sai! Se mi vedesse emozionato, sarebbe peggio. Non ti commisera, capisci? E qualcosa deve averlo confortato. Si sta calmando. Pensa a quanti stupidi ci sono in giro. Tu credi che da ragazzi fossero intelligenti?

Era la mia richiesta quando pregavo, la domenica, durante la messa. Avevo ripreso ad assistervi dopo anni di distacco e, supponevo, di congedo.

Ero convinto da una voce interiore la udivo distintamente, direi fisicamente, e non mi sembrava la mia che sarei stato esaudito.

In seguito ho diminuito la richiesta. Mi bastava che la guarigione fosse parziale. E anche confortato dalla mia accortezza nella trattativa. Non promettevo cose che non avrei saputo mantenere. No, non avrei lasciato lei, questo non lo promettevo. Che cosa avrei fatto se mi avesse risposto di no? Posso solo rispondere che era il mio. Lo lascio — come dicevano una volta i narratori quando volevano sottrarsi al rischio di una caduta — immaginare al lettore.

Altri invece, oggi soprattutto, lo raccontano, ma non so se il lettore ci guadagna. Facevo invece concessioni sugli incontri con lei. E promettevo inoltre sacrifici della gola, non privi di ricadute positive sulla dieta, che da sola non sarebbe bastata a impormeli.

Intermittente e ondulatoria: alta nelle occasioni del bisogno, tenue e circospetta nelle altre. Quando ci chiediamo se gli antichi credevano veramente, dovremmo chiederci come crediamo noi. A mano a mano che mi allontanavo, il chiarore diminuiva nella notte e si dissolveva nella luce del giorno. Del resto ci ha lasciato il tempo per maturare. Mi ha guardato perplesso e mi ha risposto: «Lei parla di guarire? Comunque ho cambiato medico. E sulla preghiera ho cambiato idea, come sulla guarigione.

Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Lo so che prega chi sopravvive e chi muore, chi vince e chi va incontro alla sconfitta. Un disabile crede per compensazione. Non pensano a se stessi, pensano a lui. Hanno una delega collettiva a soffrire per gli altri.

Chi ha il regno della terra, ovvero di una sua particella, non ha di che commiserarli, ma lo fa ogni volta. So che Paolo ha una attrazione particolare per le cerimonie.

Preferisce quelle festose, come battesimi, cresime e matrimoni, ma anche quelle funerarie lo riempiono di gratificata compunzione. Glielo ho fatto notare cercando di essere lieve e ironico, ma non ha gradito. Lui invece impiega le risorse di un linguaggio lento e roco per dire parole che sembrano arrivare da lontano ed emozionano chi le ascolta. La cosa mi fa piacere e mi turba.

Decido di essere sincero con lui ossia ho bisogno di lui e gli confesso che resto, a queste notizie, sia contento sia sconcertato. Lui mi guarda, a sua volta, tra rassegnato e deluso. Mi dice con la sua voce affaticata: «Sei stupito, vero? Paolo non ha — per usare un eufemismo temerario — un buon ricordo di un medico del Centro. E una offesa diventa intollerabile, quando vi aggiungiamo la vergogna della nostra debolezza.

Capivo, dai suoi racconti, che restava paralizzato, come un insetto trafitto dal pungiglione di un ragno al centro della tela. A me era successo da giovane, durante il servizio militare, con un sottufficiale incolto quanto astuto, pusillanime quanto beffardo.

Mai sarei riuscito a convincerlo del mio valore. Lui esagera, con quel gusto della iperbole che sa come mi diverte: «Era un delinquente! Tu devi fargliela pagare! Lui mi guarda a sua volta, per capire se scherzo o faccio sul serio. Ogni colpo messo a segno deve essere per lui una conquista. Proprio tu fai queste discriminazioni? Quando esce dalla cabina, sorretto da una hostess molto compresa della parte, sorride contro il sole, facendosi schermo con la mano, e ci saluta senza vederci.

Alla sera, sulla terrazza bianca, circolare, del ristorante, appeso nel buio a una corolla di lampade altissime, scende la voce di un altoparlante che rivolge, prima in inglese, poi in italiano, un brevissimo benvenuto a Paolo. Applausi discreti ai tavoli, alcuni commensali si volgono in giro, altri guardano nella nostra direzione.

Franca arrossisce, io poso il bicchiere, Paolo ha un soprassalto di gioia. Non so se lo fanno anche con gli altri ragazzi. Paolo dapprima respinge, poi attira. Ha imparato — per talento naturale e per esperienza — che dagli altri bisogna farsi perdonare non solo i nostri beni, ma i nostri mali. Lui prova sempre quello che io provo soltanto negli stati di grazia: simpatia per il mondo.

E il mondo lo ricambia. E anche chi non lo vive. Ho un brivido pensando alla incoscienza di essere sceso con lui, scivolando sulla scarpata, per poi risalire non so come verso la liberazione. Paolo mi chiede: «Dove stava la capra Amaltea? Gli ho anche raccontato che mostravano, oltre alla grotta dove il dio era nato, anche il luogo dove era morto.

Altrimenti lei rovina la macchina. Il portiere la guarda con un balenio di intesa negli occhi. Spiazzi sabbiosi, macigni, tratti di ghiaia, sterrato polveroso. Aiuto Paolo ad avanzare tra pietre e rovi, procediamo tutti e due curvi e contorti sotto il sole cocente.

Guai alle scorciatoie e non solo in montagna , soprattutto se si vuole risparmiare la fatica. Mi lascio scivolare in un rotolio di sassi fino al sentiero, dove Franca si limita a congiungere le mani in un gesto non so se di deprecazione o di preghiera.

Risalgo verso Paolo. Che cosa faccio, chi sono, in questo calore abbacinante, alle quattro del pomeriggio, mentre respiro affannato contro le fessure di questa fortificazione arcaica? Riesco, scorticandomi le braccia, tra rivoli di sudore sul viso, ad afferrare Paolo per i piedi. Gli grido: «Lasciati andare! Sosta in una locanda sul mare, il sole tra le canne del pergolato, una insalata alla greca, gigantesca, colorata, rinfrescante.

Franca ha ordinato formaggio piccante, Paolo pesce alla brace. Io dico: «Cibo omerico. Guardo le onde che si rovesciano sulla spiaggetta in basso, tra gli scogli. Alcuni ragazzi abbrustoliti dal sole guizzano sulle creste, agitando le braccia.

La sento dire: «Adesso basta. Io so che cosa pensare. Le poso un attimo la mano sulla spalla. Lei intuisce a che cosa sto pensando. Sorrido, gli occhi lucidi.

Alzo il bicchiere di vino bianco resinato: «A Franca» dico. Paolo, stupito che non abbia detto la mamma, alza il suo. Paolo ha imparato, dopo anni, a nuotare a rana, inspira profondamente e tuffa la testa nelle onde. Si rovescia sul dorso, ansimando, il viso in alto. Paolo me le indica: «Non vuoi prendermene una? Mettersi nei suoi panni.

Si sottopone a terapie contraddittorie che hanno deformato il suo corpo. Mi appoggio sgomento allo schienale della poltrona. Chi lo autorizza? Chi ci resta ormai da ascoltare se non i pazzi? Non possiamo mai, come si dice con una espressione temeraria e orrida, entrare nel cervello di un altro.

Lui allunga le braccia ossute sulla poltrona, sollevando fieramente il viso scavato: «E allora un attore? Anche Cassandra forse non aveva scelta, prediceva semplicemente il futuro. Ha perso sul treno, durante una gita con i suoi compagni, una macchina fotografica costosa, la prima volta che gliela avevo affidata.

Lo rimprovero in modo concentrato, ma rapido. Era un convincimento superstizioso dei genitori, nel paleolitico recente, che litanie di parole producessero opere. Hai capito? In nessun caso! Per gridare immediatamente dopo, se suonava il telefono: «Io non ci sono per nessuno!

Avete capito? Lo sorprendo, capisci? Lo disoriento. Quanto alla sua educazione, non ne ho seguito le tappe. Paolo mi ascolta. Lui commenta: «Grazie per avermi parlato da uomo a uomo». La associavo, fraintendendola, ad alterazioni del cervello, minorazioni della mente, perdita del pensiero. Un tracciato avrebbe rivelato che cosa non funzionava nella sua testa. Quando penso ai problemi che mi ponevo sulla intelligenza di Paolo, penso a quelli che avrei dovuto pormi sulla mia.

E se mi guardo intorno, non trovo molti esempi confortanti. Account di prova gratuito per utenti registrati. Commenti recenti di Nati due volte. Drina Udinesi Non mi piace scrivere recensioni sui libri Molto ben scritto, personaggi fantastici e ho adorato l'ambientazione!

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